Quando parliamo di errore, di cosa parliamo?

Non tutte le ciambelle escono con il buco – Chi fa falla, chi non fa sfarfalla – Sbagliando s’impara.
I proverbi popolari, così come i grandi pensatori, ci insegnano che l’errore è un aspetto ineliminabile del fare dell’uomo e può svolgere una funzione positiva. Eppure la maggior parte delle persone sperimentano l’errore come un’esperienza negativa. Abbiamo comunque paura di sbagliare, anche se siamo consapevoli che attraverso l’errore possiamo scoprire qualcosa di nuovo, ad esempio un nuovo modo di fare la stessa cosa, più veloce, più piacevole o più fruttuoso.
Il fatto è che cadere nell’errore espone al giudizio sociale, può suscitare sentimenti di vergogna, di timore del giudizio dell’altro, avere quindi un impatto emotivo individuale molto forte che non consente di “vedere” nell’errore altro che la dimensione di sciagurato inciampo.
Anche la dimensione del tempo gioca un ruolo determinante nel modo di vivere l’errore.
Cosa succede quando ci rendiamo conto di aver sbagliato?
Di fronte a noi si apre un bivio: o torniamo alla situazione di partenza e cerchiamo di ripristinare quello che c’era oppure proviamo ad andare avanti, sperimentiamo l’incertezza, camminiamo sulla strada sconosciuta per scoprire dove ci porterà.
Di fatto l’errore ci mette a confronto con l’esperienza interiore del tempo, come ci spiega il filosofo E. Husserl. Se mi attivo per “riparare” all’errore cercando di cancellare il mio sbaglio e riprendere da dove ero partito, possibilmente senza che nessuno se ne accorga, porto il mio sguardo al passato, tendo a voler ritornare nel “noto” e a ripercorrere la solita strada. Possiamo dire che in questo modo vince l’abitudine, spinta dalla mia immagine pubblica da difendere. Uno sguardo rivolto al passato non potrà però mai essere uno sguardo creativo e innovativo. E’ uno sguardo centrato solo su di sé, sul proprio mondo interiore che in questo caso mescola vergogna e paura.
Se invece decidiamo di prendere l’altra strada, di provare a capire cosa ci sta “raccontando” l’errore di interessante, vuol dire che il nostro sguardo va verso ciò che sta davanti a noi ma che ancora non conosciamo, il futuro appunto. E’ incerto, rischioso ma generatore. Su questa strada si trovano le novità, le idee. Il nostro sguardo non si rivolge al nostro interno dominato da un Io arroccato, ma all’esterno, sta in un atteggiamento di apertura. Radura è chiamata da M. Heideger, intesa come lo spazio in cui «liberare, affrancare, portare all’aperto» le cose.
Allora possiamo comprendere il doppio significato di “errare”, inteso come sbagliare ma anche come andare qua e là senza meta certa.
Una volta che ci siamo resi conto di aver sbagliato, possiamo scegliere quindi se girarci per tornare indietro cercando di cancellare le nostre tracce o se proseguire per approdare a un “nuovo” approccio, metodo, idea…
E trattandosi di fare una scelta davanti a un bivio, abbiamo a che fare con la responsabilità individuale.
L’errore ci mette nei guai. Ci lancia un guanto di sfida. Sollecita la responsabilità. Apre spiragli di mondi diversi. Mette in crisi quello che c’è.
Per questo ci sembra interessante guardarlo con occhi diversi.
Disincantati, non retorici, ma curiosi.
Sull’errore, per noi, vale lo stesso ragionamento che fa Gianni Rodari, a proposito della grammatica della fantasia, “non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”
Laura Rossi, co-founder di Evidentia

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